CAPITOLO TERZO

Mio padre lavorava sotto la TODT a Ghedi, una ditta pagata dai tedeschi. Partiva il lunedì mattina e tornava a casa il sabato sera, così noi rimanevamo soli con mia madre. Era il periodo buio della guerra, il ’41–’42: poco cibo, pochi vestiti. Per fortuna c’erano i nonni, materni e paterni, che ci davano qualche scodella di tagliatelle o un po’ di latte per i miei fratelli (io non l’ho mai potuto sopportare).

Riscaldamento? A casa avevamo una stufa di cemento, però le porte erano rotte e così il caldo usciva e l’aria fredda entrava. Per fortuna, nelle lunghe sere, c’era la stalla della nonna Teresa – bella calda – riscaldata dalla Baghi, una mucca magra ma con un grosso pancione; poi c’erano la pecora, il maiale e qualche coniglio. A volte eravamo in quindici, compresa la nonna e le ragazze da marito, che venivano sorvegliate a vista da lei.

Mi ricordo che una sera entrarono due giovani vestiti in modo strano: avevano dei giubbotti color cachi e scarponi da montagna. Io e mio cugino notammo che sotto il giubbotto avevano la pistola e delle bombe a mano: erano due partigiani! Mia nonna, terrorizzata, ci impose il silenzio assoluto. Se i fascisti li avessero scoperti, avrebbero incendiato la casa (loro venivano per vedere le ragazze).

C’era il coprifuoco e bisognava tappare tutte le finestre perché non trapelasse la luce, altrimenti passava “Pippo” – una cicogna tedesca che mitragliava e sganciava bombe leggere. Ogni tanto arrivavano delle camionette di fascisti e tedeschi a fare rastrellamenti, arrestando tutti coloro che si trovavano nei campi o nei boschi a tagliare legna; li portavano a Botticino, al palazzo comunale, per essere identificati, trattenuti o rilasciati.

 

 

 

Questa storia dei rastrellamenti era iniziata con la liberazione del Duce dal Gran Sasso e il suo trasferimento a Salò, per ordine di Hitler. Da lì è iniziato il movimento per liberare l’Italia dai nazifascisti.
Questa è una storia che meriterebbe un capitolo a parte, per sottolineare i sacrifici, le torture e le uccisioni dei nostri valorosi giovani che si sono sacrificati per donare al popolo italiano la libertà.
Mi limiterò solo ad accennare alcuni episodi che meritano di essere tramandati ai posteri.

CAPITOLO QUARTO

E così successe tutto dopo l’8 settembre, dopo la disfatta dell’esercito italiano: molti giovani si dettero alla macchia per non entrare nella neonata Repubblica di Salò, formando le famose brigate partigiane.
Dalle nostre parti operavano la 122ª Brigata Garibaldi e le Fiamme Verdi: la prima nella Val Trompia (Monte Sonclino), la seconda nella Valle Sabbia (Corna Blacca, Le Pertiche).

A San Gallo c’erano sostenitori della Brigata Garibaldi. Un giorno vennero a nascondere le armi sotto la legna, proprio dove abitavamo noi; solo mio padre ne era a conoscenza. Durante un rastrellamento, avvenuto in gennaio, qualche repubblichino propose di accendere un fuoco e prendere un po’ di quella legna: a mio padre si rizzarono i capelli, ma per fortuna un ordine di spostarsi li fece desistere.
Questo fatto me lo raccontò mio padre a guerra finita. Per molto tempo dopo conservò nascosta nel muro una pistola tedesca, che nel 1960 io stesso, tramite una persona fidata, feci consegnare al maresciallo dei Carabinieri di S. Eufemia.

Nel febbraio del 1944 i mitragliamenti alla stazione di Rezzato erano all’ordine del giorno. I caccia arrivavano da Bologna o dalla Toscana in gruppi di quattro o cinque, scendevano in picchiata sopra i vagoni carichi di munizioni mitragliando a tutto spiano, poi risalivano in quota rapidamente. Allora entrava in azione la contraerea tedesca con cannoni e mitraglie pesanti.

Un giorno, mentre noi ragazzi assistevamo al bombardamento, vedemmo un caccia americano che, con la coda fumante, si diresse verso il Monte Paina. Arrivato sopra il Dosso Grande, il pilota si lanciò col paracadute, mentre l’aereo si schiantò sotto il paese di Castello di Serle! Il pilota, sceso a San Gallo, fu accompagnato da un giovane del paese verso il Monte Sonclino, dove operava la 122ª Brigata Garibaldi.

Una notte mio padre mi svegliò: «Vieni a vedere i bengala sopra la Maddalena». Io non sapevo cosa fossero. Quando alzai lo sguardo vidi come dei lampioni sospesi nel cielo: erano stati lanciati dagli aerei americani per illuminare la zona da bombardare (in quel caso Brescia).
Uno di questi, non aprendosi il paracadute, cadde sopra la casa di Pisca, in mezzo ai detriti di roccia. Pisca, svegliato dal rumore, corse sul posto e, con una lunga pertica, cercò di rimuoverlo; l’ordigno s’incendiò e cominciò a fare un rumore infernale, costringendolo a scappare a gambe levate.

Durante l’estate del 1944 le incursioni e i bombardamenti erano quasi quotidiani, anche di notte. Dalla casa dove abitavo si vedeva un buon tratto di pianura e, nelle giornate limpide, perfino gli Appennini (che mio padre chiamava “le montagne di Parma”).
Una notte fummo svegliati dal rombo degli aerei che scendevano in picchiata a mitragliare il campo

d’aviazione di Ghedi e la polveriera vicina; sotto, la contraerea tedesca cercava di abbatterli: sembrava l’inferno.
Mia madre, piangendo, diceva: «Vedete bambini, vostro padre è là sotto quel fuoco... preghiamo la Madonna che lo protegga». Era il periodo in cui lavorava a Ghedi, sotto la TODT.

Lo aspettavamo con ansia il sabato sera, perché ci portava una grossa pagnotta di segale e qualche caramella! Una volta, tornando a casa lungo il sentiero che s’inerpicava verso il paese, vide in un boschetto una lepre. Arrivato a casa, andò a prendere il fucile che nascondeva sul solaio (in tempo di guerra non si poteva tenere) e ritornò sui suoi passi.
La lepre era ancora là: con un colpo la uccise, e così fu per noi una grande festa, con la pastasciutta fatta con il salmì di lepre – prima, infatti, mangiavamo salmì di gatto (ecco perché i topi saltavano sul letto!).

Ma il fatto più doloroso, che ha lasciato un solco profondo nella mia memoria, è stata l’uccisione da parte dei fascisti di tre partigiani della 122ª Brigata Garibaldi.
Era la mattina del 28 ottobre 1944, piovosa e nebbiosa. Improvvisamente, sul Monte Fratta, si udirono raffiche di mitraglia accompagnate da grida di dolore. Dopo l’atto criminale, un gruppo di repubblichini scese a San Gallo e chiamò il parroco, Don Leopoldo Gaffuri, dicendogli: «Vada su alla Fratta, ci sono dei morti da benedire».

Le prime ad accorrere sul posto furono alcune ragazze di San Gallo: Margherita, Rosa, Santina e Lucia.
La Santina raccontò poi che una di loro si inginocchiò davanti ai cadaveri dei tre giovani e cominciò a pregare.
Verso sera, un gruppo di uomini e donne di San Gallo salì alla Fratta e, con delle barelle, trasportò i corpi nella chiesetta del cimitero, dove alcune donne pietosamente li lavarono dal sangue e li ricomposero.
Due giorni dopo furono seppelliti, senza bara, nel cimitero di San Gallo.
Il muro del cimitero che guardava verso sud era crollato la vigilia di Natale del 1943 per un forte vento; pertanto, i compagni dei partigiani trucidati non ebbero difficoltà a entrare e deporre una corona di fiori con la scritta: “Sarete vendicati!”