Chi siamo

CAPITOLO NONO

A maggio, quando cominciano a cantare il cuculo e l’usignolo — come diceva mio nonno — “l’erba cresce al volo”.
Infatti, verso l’ultima decade del mese, nei campi all’ombra dei gelsi, i contadini, piantate le piccole incudini, battevano le falci durante le ore più assolate.
Verso sera, scendevano con fasci di fieno sulle spalle per portarli sul fienile.

Mi ricordo che una sera mio nonno arrivò nel cortile, dove le donne stavano sedute a fare la calza (“scarpéta”), con un fascio di fieno sulle spalle.
Mio padre, che stava seduto fuori dall’uscio, gli disse:
— Dove state andando?
Allora lui, accortosi di aver sbagliato strada, rispose:
— A merenda!
Tutti risero di cuore.

Sicuramente i giorni più belli erano quelli d’estate, cioè dai primi di giugno fino ai giorni della vendemmia.
Era l’estate che noi aspettavamo con ansia: potevamo girare in lungo e in largo nei prati, nei boschi — e naturalmente a piedi nudi!

Poche preoccupazioni anche per la dieta, perché nei campi e nei boschi si trovava un po’ di tutto: fichi, pesche, prugne, mele, more, nocciole, cornioli… e nella valle perfino degli squisiti gamberetti che noi mangiavamo vivi.
La scuola era finita, cartella e quaderni erano stati messi da parte; si partiva al pomeriggio e, scesi per il bosco dei castagni, cominciavamo a dare la caccia ai cervi volanti.

Avevano delle corna appuntite che si stringevano a tenaglia — tant’è vero che le sperimentavamo con i cani, attaccandole sotto la coda!
E così, imboccando di corsa un sentiero che passava sotto il bosco di robinie, si arrivava giù nella valle dove scorreva il torrente Rino, che una volta faceva girare la ruota di un vecchio mulino chiamato “l’Ora”.

Nelle fontane create naturalmente dal torrente, l’acqua era fresca; ma noi, tolti i pochi abiti, completamente nudi saltavamo dentro, allegramente, a fare il bagno.
Sicuramente erano i giorni dell’anno in cui l’igiene intima era più curata!

Allora San Gallo era illuminato da soli tre piccoli punti luce:
uno si trovava alla Trinità, uno al centro del paese davanti alla fontana, e l’altro in fondo al paese, prima di imboccare la mulattiera che saliva verso Castello di Serle.

Nelle sere calde d’estate, uomini e giovani si sedevano per terra appoggiandosi al muro delle case e così, sotto una luce tremula che illuminava la povera strada, si vedevano file di uomini stanchi, accovacciati in terra, molti con i capelli bianchi, che raccontavano le loro gesta della passata guerra.

Era sera nella mia contrada:
nonne che filavano pregando piano piano;
il rumore di un carro che si perdeva lontano;
nel brolo i ghiri che volavano di ramo in ramo;
timidi accordi di grilli che salivano dalla valle, coperti dal gracidar delle raganelle;
nel cielo, una virgola di luna contornata da pallide stelle;
dialoghi d’usignoli nelle frasche;
dalla pieve rispondeva la campana;
sussurri di voci presenti e ricordi di voci trapassate, travolte dal vento che cancella quella sera d’estate… per me ormai lontana.

Erano quelle sere in cui, nel cortile della scuola, si sentivano i ragazzi della colonia estiva cantare Giovinezza, Sole che sorgi e altri canti imposti dal regime fascista.
La gente ascoltava in silenzio e gli anziani scuotevano il capo malinconicamente: quasi tutti avevano un fratello, un figlio o un cognato partiti per l’Albania o in Russia a combattere una guerra assurda, voluta da gerarchi avidi di potere e di gloria.

E forse, per sviare questi tristi pensieri, le nonne ci facevano pregare per i poveri morti; poi qualcuna aggiungeva, seriamente:
— Preghiamo anche per quelli che combattono in Africa, che si stanno tirando le palle l’uno con l’altro!
A questa affermazione c’era chi sorrideva per la metafora innocente.

Ogni tanto qualche pipistrello svolazzava intorno alla piccola luce, e c’era chi portava una pertica per abbatterlo. Ma il pipistrello riusciva sempre a sviare i colpi, e così tutti ridevano: anche questo era un divertimento, e allo stesso tempo un modo per nascondere i tristi pensieri.

In estate erano frequenti i temporali.
Mi ricordo che una mattina, verso le undici, scoppiò un forte temporale.
L’aria calda era ferma come l’acqua della pozza vicino al prato, dove d’estate le mucche si abbeveravano al ritorno dai pascoli.
Giù, in fondo alla pianura, si era fatto buio e si sentiva un brontolio sordo, come il grugnito di un orso rabbioso.
Le rondini passavano a volo radente sopra il cortile, l’aria era pesante, cominciava a lampeggiare — pareva quasi che il cielo pigliasse fuoco.

Prima il tuono si sentiva ancora lontano, ma dopo pochi minuti era sopra di noi, e talvolta sembravano colpi di frusta.
Arrivavano le prime raffiche di vento che sbattevano violentemente le imposte, e le piante facevano l’inchino a ogni ventata.
La nonna chiamava a raccolta le sue galline, e dalle colline scendevano a precipizio mucche e vitelli che facevano risuonare i campanacci.
Le donne correvano in fondo all’aia per ritirare in fretta il bucato steso ad asciugare.

Poi cominciavano gli scrosci violenti di pioggia e le gronde straripavano d’acqua: le strade del paese diventavano torrenti, e nella valle si sentivano i rumori dei sassi trascinati dall’acqua torbida.

Sotto il portico, la mia nonna bisbigliava qualche Ave Maria, bruciando nello scaldaletto rami d’ulivo benedetto per scongiurare la grandine.
Alla fine, passato il temporale, ci veniva regalato un meraviglioso arcobaleno, e il nonno, guardandone i colori, esclamava soddisfatto:
— Vedete? Quest’anno faremo un’ottima vendemmia, perché il rosso è più marcato degli altri!

L’estate ci regalava anche la festa del Corpus Domini: la sentivi nel profumo dei fiori, nel cinguettio degli uccelli, ma soprattutto nel suono delle campane, che — suonate a concerto dai vecchi campanari — entravano con prepotenza nelle case, nelle stalle e perfino nelle cantine, dove il vino maturava nelle botti di rovere.

C’era tanta allegria allora nelle case:
le donne si vestivano a festa con corsetti variopinti,
la nonna ravvivava il fuoco sotto il pentolone appeso alla catena, dove bolliva il vecchio gallo — da noi chiamato “la sveglia del paese”.


 

Il nonno aveva già preparato due fiaschi di vino buono per il pranzo; si era lavato e fatto la barba col rasoio, facendo bollire un pentolino d’acqua per l’occasione.
Poi girava per la casa, con i pantaloni di fustagno, fumando la pipa: ora andava a dare un’occhiata alla stalla, ora scendeva in cantina a controllare i tappi delle damigiane, nel caso fossero saltati per la fermentazione del vino.

Verso l’una del pomeriggio la contrada si animava: uomini, donne e ragazzi si davano da fare per preparare il passaggio della processione col Santissimo.
C’era chi piantava i pali ai lati della strada, chi attaccava le corde del bucato; poi arrivavano le donne con le lenzuola ricamate portate in dote, e le stendevano.

Altri portavano giù dai monti i fiori spontanei che noi chiamavamo “del Corpus Domini”, e chi spargeva petali di rose lungo la strada.

Verso le tre, il suono a concerto delle campane annunciava l’inizio della cerimonia.
Nella piccola chiesa, fumosa di candele e d’incenso, accompagnato dal mugugno dell’organo, il vecchio prete pelato intonava il vespero, e le donne rispondevano con voci poco intonate, in latino storpiato e trascinato come tante ciabatte rotte.

Fuori, sul sagrato, la banda del paese attendeva l’uscita del prete che, ad alta voce, pregava.
Le campane venivano fermate “a bicchiere” (sulle poste) per dare spazio alla banda, che con passo cadenzato e lento intonava il Lauda Sion.

La processione, partita dalla chiesa, arrivava al Finìl de Sèch: lì, nel cortile, veniva improvvisato un piccolo altare adorno di fiori di campo e due candelabri.
Il prete deponeva l’ostensorio col Santissimo e pregava; poi, mentre intonava il Tantum Ergo, lo incensava e impartiva la benedizione solenne.

Si faceva quindi ritorno alla chiesa, accompagnati dalle marce religiose suonate dalla banda.
All’ingresso del tempio, le campane riprendevano a suonare a concerto.

È curioso notare che banda e campane non suonavano mai insieme, perché gli strumenti della banda erano in si bemolle, mentre il concerto delle cinque campane del paese era in sol maggiore: perciò avrebbero creato forti dissonanze… anche alle orecchie dei profani!

CAPITOLO DECIMO

Settembre era, per noi ragazzi, il mese più spensierato e divertente.
La giornata era piena, nel vero senso della parola: si partiva al mattino presto conducendo le capre al pascolo nel bosco del comune.

Naturalmente ci perdeviamo a giocare, costruendo casette con i sassi, e intanto le capre, approfittando della nostra distrazione, a volte entravano nel piccolo campo santo dalla parte dove era caduto il muro, a brucare i fiori e l’erba che crescevano sulle tombe dei nostri bisnonni.

Con l’umidità di questo mese cominciavano a spuntare i primi funghi: infatti nei boschi si trovavano gli ovuli, i porcini, le ditole e tante altre specie commestibili. Era una vera festa per noi, perché oltre al divertimento contribuivamo — almeno in minima parte — al sostentamento della famiglia.

Allora i boschi erano puliti dai rovi, proprio per dar modo alle mucche di pascolare.
Salivamo verso il passo di San Vito e, oltrepassato il roccolo gestito dal vecchio uccellatore di Nave — che tutti chiamavano Celato — ci recavamo sul versante ovest del monte Maddalena, nei prati che circondavano le cascine.
Lì si trovavano i migliori porcini.

Verso sera, al ritorno, si passava dal roccolo per vedere se Celato aveva catturato i lucherini, che metteva da parte per noi ragazzi.
Mi ricordo che si pagavano ottanta centesimi l’uno; noi li tenevamo in gabbia come richiamo, e quando avveniva “il passo”, verso i primi giorni di ottobre, li prendevamo con il vischio.


Finalmente arrivava anche il momento della vendemmia.
Le botti erano già allineate nel cortile almeno dieci giorni prima e aspettavano gli ultimi temporali; se non arrivavano, il nonno cominciava a bagnarle con secchi d’acqua, invitando noi ragazzi ad attingere l’acqua alla fontana del paese.

Aleggiava allora nei cortili quell’odore stantio di muffa e di vino vecchio che si confondeva con il profumo degli ultimi due salami appesi alla trave della cantina, conservati gelosamente dalla nonna per il pranzo del giorno della vendemmia.

Arrivato il tanto desiderato giorno, sentivi — ancora prima dell’alba — il rumore del carro che entrava nel cortile.
Caricate le due botti senza fondo, si portavano nel vigneto, seguite da uno stuolo di lavoranti: le

donne con fazzoletti variopinti in testa e le ceste per l’uva, gli uomini con la gerla sulle spalle, seguiti da noi ragazzi, ancora a piedi scalzi.

Il nonno era già nel vigneto e aspettava impaziente l’arrivo del carro per indicare al carrettiere il punto di sosta, che si trovava al limite del campo.


Erano questi i giorni nei quali si mescolavano le più svariate voci.
Erano questi i giorni in cui esplodeva l’allegria in tutto il paese.
Erano questi i giorni in cui le donne intonavano i canti tradizionali ricevuti in eredità dai nostri antenati.

A tutto questo si aggiungeva lo scagnare dei segugi che, stanata la lepre, la inseguivano lungo i pendii delle colline, incitati dalle grida dei cacciatori.

Erano questi i giorni che non sarebbero più tornati.

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