Chi siamo

CAPITOLO SETTIMO –

Santo aveva sei anni più di me ed era il cugino di mia madre. Era lui, dopo mio nonno, che mi costruiva dei giocattoli di legno: piccole trottole o carrettini con fili di ferro e ruote di legno che lui chiamava “caratine”.
Era l’ultimo di sette fratelli. Suo padre, lo zio Giacomo, faceva il carrettiere; anche suo nonno Santo era carrettiere, e la sorella dello zio Giacomo — che chiamavano la zia Mora — faceva la carrettiera. Poi, non so per quale motivo, entrò in un convento di clausura a Brescia.

Per capire meglio le caratteristiche di questo mestiere, mi soffermerò su alcuni particolari importanti.
Anzitutto, chi possedeva dei muli acquistava anche un carretto adibito al trasporto di legname, derrate alimentari e prodotti locali da portare al mercato di Brescia: uva, fieno, mele, amarene, eccetera.
Chi possedeva un biroccio trasportava anche persone, oppure lo mandavano a prendere la levatrice quando un parto si presentava difficile; altrimenti si arrangiavano le donne del paese.

Mi raccontava mia madre che, nel gennaio del 1944, essendo imminente il parto e trovandosi sola in casa, volle andare da mia nonna (sua madre), che abitava a circa cento metri da casa nostra. La nonna era andata a messa e lei fece appena in tempo a salire in camera e a prendere in mano mia sorella che stava nascendo; altrimenti, la bambina avrebbe battuto la testa sul pavimento con il rischio di rimanere uccisa!

Ma torniamo al nobile mestiere del carrettiere, che praticavano i miei antenati.
Negli anni Venti, Trenta e Quaranta, questo zio di mia madre possedeva due mule — si chiamavano Lisa e Pina — magrissime, ma capaci di trainare una carretta a quattro ruote caricata con più di quindici quintali di legna. Andava a caricarla in una valle in fondo al paese e poi la portava giù a Botticino, dove aveva parecchi acquirenti.

Quando andavano a caricare la legna in fondo al paese, mio cugino Santo veniva a prendermi a casa (abitavamo vicini) e mi caricava sul carretto a quattro ruote. Insieme al fratello maggiore partivamo alle tre del pomeriggio, e qualche volta, quando suonava la campana dell’Ave Maria, eravamo ancora a metà strada sulla via del ritorno.

Seduti sulla catasta di legna, Santo mi raccontava storie di fantasmi e di briganti. Io facevo finta di nulla, ma avevo una fifa tremenda: le ombre delle piante illuminate dalla luna sembravano file di spettri con grandi braccia aperte, pronte a ghermirmi.

Due storie in particolare mi sono rimaste impresse: due racconti che narravano i vecchi carrettieri e i boscaioli di San Gallo, che vale la pena di fissare sulla carta.


La storia della giacca

Una sera di novembre, Bortolo saliva lungo la strada tortuosa con il suo carretto. Era buio e non si vedeva a un palmo dal naso; la lucerna appesa alle stanghe del carro dondolava, e le piante sembravano fantasmi giganteschi che si muovevano, quasi volessero fermare il mulo.

Bortolo era abituato a rientrare a casa dopo il suono dell’Ave Maria, ma quella sera, seduto sul carretto, sussultava a ogni inciampo dell’animale. In verità non aveva tutti i torti, perché al suo amico Santo, due notti prima, era successa una cosa strana.

Saliva da Botticino Sera e, superata la cascina Falia, passando vicino a una casa diroccata chiamata “Sciopetèr”, si era trovato il sentiero sbarrato da quattro uomini vestiti di bianco, accanto a un carretto carico di tronchi.
Uno di loro gli si era avvicinato e, bruscamente, gli aveva chiesto:
— Quanto pesano questi pali? —
E lui, tutto impaurito, aveva risposto:
— Non me ne intendo! —
Poi era fuggito di corsa. Arrivò a casa alle due di notte che tremava come una foglia, e solo il giorno dopo raccontò l’accaduto ai familiari.

Mentre Bortolo meditava su quella strana storia, all’improvviso il mulo si fermò di colpo.
— Vai! — gridò. — Vai! —
Ma l’animale non si muoveva, come se gridasse al muro.
In quel momento, vide seduta accanto alla strada una ragazza vestita di bianco che tremava dal freddo.
— Per piacere — disse con un filo di voce che pareva venisse da un altro mondo — mi dareste un passaggio? Abito in fondo al paese.
— Sali pure — rispose Bortolo.

Appena salita sul carretto, il mulo partì senza bisogno di comandi. La ragazza tremava dal freddo, e Bortolo le coprì le spalle con la sua giacca.
Arrivati in fondo al paese, il mulo si fermò di nuovo, senza che lui gli dicesse nulla.
— Io sono arrivata, grazie — disse la ragazza, scese dal carretto… e scomparve.

Bortolo tornò a casa, ma la mattina dopo si accorse che la sua giacca non c’era: l’aveva lasciata sulle spalle della ragazza. Allora ritornò alla casa in fondo al paese, bussò, e gli aprì una donna anziana, di circa ottant’anni.
— Mi scusi se la disturbo — disse — sono venuto a riprendere la mia giacca. L’ho lasciata a vostra figlia, che ho accompagnato a casa stanotte perché aveva freddo.
— Guardi che mia figlia è morta da più di vent’anni — rispose la donna.

Bortolo tornò a casa preoccupato, e verso sera, dopo aver foraggiato le mucche, decise di andare al cimitero.
Sulla lapide, con la fotografia della ragazza che aveva accompagnato la notte prima… c’era la sua giacca.

CAPITOLO OTTAVO

Dopo questa seconda storia, vale la pena di spendere due parole sull’uso del filo di ferro (o d’acciaio) per far scendere dalla cima del monte a valle i carichi di legna che pesavano dagli ottanta ai cento chilogrammi.
Questo filo fu introdotto a San Gallo agli inizi dell’Ottocento: aveva un diametro di circa undici millimetri, era di ferro duro, e la sua lunghezza variava dai trecento ai cinquecento metri, con una pendenza del 50 per cento.

Facevano scendere la legna con ganci di legno ben stagionato; più tardi vennero introdotte delle carrucole (le sarèle), specialmente quando il filo scorreva quasi orizzontalmente sopra la valle. Sul versante est del Monte Maddalena, negli anni Cinquanta, se ne contavano ancora quindici; poi, con l’avvento delle teleferiche moderne, ne rimasero solo tre.

Per chi volesse farsi una cultura, basta recarsi a San Gallo, sopra la cascina detta dei Basciani: sopra quella cascina esiste ancora un filo di ferro, dove si può fare una dimostrazione pratica a scopo culturale-didattico.


L’alimentazione e la vita quotidiana

Ma com’era l’alimentazione, e soprattutto, come si nutriva la gente a quei tempi?
Negli anni Venti, Trenta e Quaranta — anni difficili per tutti, anche a San Gallo — nessuno è mai morto di fame: tutti si aiutavano a vicenda.

Risorse economiche? Tutti avevano un pezzo di terra coltivata a vite, o seminata a grano, o a prato, per chi possedeva mucche. Quasi tutti avevano una mucca, una o due pecore e un maiale, e così il vitto era assicurato per buona parte dell’anno.

Con la coltivazione della vite, il vino non mancava mai; e spesso, con i fondi e le raspe, si faceva la grappa di nascosto.
Per mancanza di denaro, spesso si scambiavano i prodotti: dal fieno alla legna, dal salame al burro, dalla farina al vino, dalla carne al formaggio. I prezzi venivano stabiliti di comune accordo, da paese a paese.

Ad esempio, un quintale di legna valeva un tot di fieno; un salame, un tot di burro; una damigiana di vino, un tot di farina. Gli accordi di questi scambi si facevano sul sagrato della chiesa, la domenica mattina dopo la messa delle cinque.

Quando a San Gallo fecero saltare il re

Ricordo che nel 1946, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, in Italia era molto acceso il dibattito politico. Si tenne anche il referendum istituzionale, perché gli italiani dovevano scegliere tra monarchia e repubblica.
Il clero, cioè la Chiesa in generale, tendeva a sostenere la monarchia, e così avveniva anche a San Gallo. Le omelie e le parole del parroco, infatti, cercavano di indicare alla gente a votare per il re.

Naturalmente c’era anche un po’ di malcontento da parte di qualcuno. Alcuni giovanotti, per scherzo o per protesta, costruirono un banchetto — o meglio un piccolo altare — sul bordo della strada, sotto le scuole elementari. Sopra misero la foto del re, qualche candela e altri oggetti.

Dentro il quadro e in qualche altro oggetto disposero di nascosto un po’ di polvere che si usava al “medol” in cava , con una miccia.

Quando le donne uscirono dalla messa, passando di lì e chiacchierando tra loro, i giovanotti innescarono la miccia e si allontanarono , facendo saltare in aria la fotografia del re.
Fu un gesto simbolico, non pericoloso: a quei tempi, infatti, tutti sapevano maneggiare la polvere che si usava nelle cave.

L’esplosione provocò un grande spavento tra le donne e molte chiacchiere in paese: si andava dicendo che “avevano fatto saltare per aria il re”!
È sicuramente un fatto curioso che ricordo bene...

Poi, fortunatamente, il 2 giugno del 1946 la Repubblica venne scelta a maggioranza dagli italiani — e il resto della storia lo conosciamo.

 


La macelleria clandestina

Sotto il paese c’era un fienile e una stalla: luogo ideale per una macelleria clandestina.
Quando una mucca aveva raggiunto la veneranda età di sedici anni o non faceva più latte, al mattino presto — prima dell’alba — la portavano di nascosto davanti a quella stalla.
Chiamavano Battista, il norcino del paese: lui la sgozzava, e con l’aiuto di alcuni uomini la attaccavano con delle carrucole a una pianta di gelso e la scuoiavano.

In un baleno, “Radio Scarpa” diffondeva la notizia, e la gente del paese andava da Battista a prendere la carne a buon mercato: chi comprava la parte buona, chi la testa, chi le gambe, secondo le possibilità economiche o in cambio di legna, burro o salame — visto che il norcino era anche l’oste del paese!

Come dicevo, Battista era il norcino di San Gallo; nei mesi di dicembre e gennaio era impegnato a macellare i maiali presso le famiglie che lo prenotavano due mesi prima.
Era molto meticoloso nel tagliare, salare e macinare la carne per insaccarla e fare salami, cotechini e pancette, molto apprezzati anche nei paesi di Botticino, Nave e Caino.

La sua giornata iniziava alle sei del mattino e finiva alle dieci di sera. Tutti erano sotto i suoi ordini: donne, uomini e ragazzi. Erano giorni di allegria, e spesso, quando si legavano i salami, si cantava tutti in coro vecchie canzoni.
Ricordo ancora i titoli di alcune: Il Bergamino, Cosa fà le sete spüzine, Testa bassa, O Signor che dal tetto natìo, e tante altre che conservo ancora gelosamente!

La notte poi si dormiva poco, a causa della pancia troppo piena, e il tutto si risolveva con una solenne dissenteria.


La vite e la Pasqua

La coltivazione della vite, in quegli anni, era praticata da tutti coloro che avevano un appezzamento di terra in collina.
Già alla fine di ottobre, dopo la vendemmia, si iniziava a scavare i solchi lungo i filari per coprire di terra la base delle viti.
Nel mese di marzo, nei vigneti si sentiva il tac-tac delle forbici che tagliavano i tralci, i suoni dei campanacci delle mandrie che uscivano per la prima volta dalle stalle e i colpi dei parascarpe di ferro dei vangatori che dissodavano la terra per esporla alle prime piogge primaverili.

Noi ragazzi sentivamo tutto questo nell’aria: sentivamo che si avvicinava la Pasqua.
Bruciata la vecchia (zòbia màta), dopo una decina di giorni le case cambiavano aspetto: bucati stesi al sole, paioli di rame (stegnadèi) lucidi e messi in fila nel cortile a far bella mostra.
Si aprivano le porte delle stalle, e l’aria si riempiva dell’odore del letame misto al profumo di viole.

Anche la gente cambiava aspetto: tutti sembravano più allegri; le donne sfoggiavano grembiuli variopinti, e le più civettuole si mettevano qualche viola nei capelli.
Avevamo abbandonato in un angolo del portico le nostre calzature (sòcoi), che ci avevano accompagnato per tutto l’inverno, e camminavamo per la strada e nei boschi a piedi nudi.


Le Palme e la Settimana Santa

Ed ecco la festa delle Palme!
La chiesa era tutta un fruscio di rami d’ulivo; le donne più anziane entravano in chiesa con fascine che, una volta benedette, sarebbero servite per bruciare durante i temporali estivi, quando minacciava la grandine.

Finalmente, il giorno dopo, iniziava la Settimana Santa.
Le funzioni si tenevano alle cinque del mattino: sonno, sbadigli… ma bisognava alzarsi e andare a Messa.

Il Giovedì Santo si legavano le campane, e ai più ingenui di noi veniva consegnato un mazzetto di vimini (stroppi) da portare al campanaro perché legasse bene le corde delle campane.
Gesù veniva riposto nel sepolcro situato davanti all’altare dedicato a San Gallo. Durante la giornata, le donne portavano fiori e vasi di frumento appena sbocciato (seminato quaranta giorni prima e tenuto in cantina).

Per noi ragazzi era un giorno di festa: si partiva in comitiva a pulire le catene dei caminetti (sgòrà le cadene), trascinandole lungo i viottoli e le mulattiere. Questo lavoro ci fruttava qualche centesimo, che serviva per acquistare un piccolo uovo di Pasqua.

Chi vegliava il sepolcro erano le donne, che a gruppi di due o tre si alternavano dall’alba al tramonto fino al mattino del Sabato Santo.
La funzione del Venerdì Santo iniziava alle cinque del mattino con il suono delle baciacòle e dei grì. Poi cominciavano i mattutini delle tenebre: venivano letti i salmi e, alla fine di ogni salmo, si spegnevano due candele.
Finita la lettura dell’ultimo salmo e spente le ultime due candele, la chiesa piombava nel buio.

Allora la gente cominciava a pestare sui banchi con dei sassi portati da casa; e, in mezzo a quel trambusto, certi giovanotti burloni inchiodavano con chiodi e martello le giacche dei presenti ai banchi davanti a loro!

Finita la funzione mattutina, i ragazzi più grandicelli passavano per le case a raccogliere la legna dei tralci di vite per il parroco.
Chi non aveva legna dava qualche uovo, conservando però gelosamente quelli del Venerdì Santo, perché — secondo la tradizione — avevano il potere di tenere lontane le malattie dell’anima e del corpo.

Questa raccolta durava tutto il giorno, ma alle tre del pomeriggio tutti si fermavano: ragazzi, giovani e adulti. Ovunque si trovassero, si inginocchiavano per pregare.
In quell’istante pareva che anche il sole perdesse un po’ della sua luce e del suo calore; gli uccelli cessavano di cantare per qualche istante, e tutta la natura attonita sembrava pervasa da un triste sgomento.

E finalmente, all’alba del Sabato Santo, sul sagrato della chiesa si accendeva un gran fuoco.
Dopo averlo benedetto, il prete iniziava il rito della veglia pasquale.
Al canto del Gloria, venivano sciolte le campane: chi si trovava già al lavoro nei campi, nei boschi o nelle cave di marmo si bagnava gli occhi con l’acqua che aveva a portata di mano.

Secondo un’antica credenza popolare, nel preciso istante in cui le campane suonavano a distesa, tutta l’acqua — delle fontane, delle pozze alpestri e delle sorgenti — era benedetta, e preservava dalle malattie degli occhi chi compiva quel rito.

Facevano eco le campane dei paesi vicini e i campanacci delle mucche, suonati dai mandriani che si trovavano sui pascoli.
L’annuncio era dato: da quel momento Gesù era risorto — da quel momento era Pasqua!

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