CAPITOLO QUINTO

Mio fratello Angelo nacque il 1° gennaio 1939. Pertanto, quando ci trasferimmo nel vecchio cascinale denominato I Tagliane, aveva circa otto mesi.
Ricordo che la nonna Teresa mandava tutti i giorni un pentolino di latte tramite mio zio Giacomo, che passava al mattino presto per recarsi al lavoro in cava.
Io non ho mai potuto soffrire il latte, perciò ne traevano vantaggio mia sorella Luigina e Angelo, che, a mo’ di sfida, venivano a sorbirlo davanti al mio naso, facendomi arrabbiare.

Nel 1940 morì il mio bis nonno (nonno di mia madre). Mi ricordo ancora la bara di assi appena piallate: il nonno era dentro con le braccia incrociate e indossava giacca e pantaloni di fustagno. Sul fondo della cassa c’erano i trucioli del legno derivati dalla piallatura delle assi.
Il cugino di mia madre, che si chiamava Santo come il nonno morto, mi disse: «Dai un bacio al nonno, perché dopo non lo vedrai più». Io obbedii e gli diedi un bacio sulla fronte, rimanendo turbato dal freddo che mi trasmise alle labbra. Molto più tardi ho capito perché la morte è fredda.

Proseguo ora con i fatti avvenuti nel 1944, dopo l’uccisione dei tre partigiani alla Fratta. I partigiani della 122ª Brigata Garibaldi si organizzarono e tennero contatti anche con le Fiamme Verdi, che operavano in località Tesio (vicino a Serle).
Lì, pare, nacque l’accordo per mandare uno di loro a rendere giustizia ai tre compagni uccisi il 28 ottobre.
Sicuramente non era del posto e forse neppure italiano – pare fosse un partigiano di origine cecoslovacca.

Colui che doveva essere giustiziato era un guardaboschi di Botticino Mattina, che aveva fatto la spia indicando il luogo dove erano alloggiati i partigiani.
Infatti, la mattina del 5 dicembre 1944, ancora buio, dalla casa dove abitavo si sentì una raffica di mitra proveniente dalle case di via Sott’Acqua, a Botticino Mattina. Mia madre subito intuì: «Ecco, hanno ucciso la guardia».
Penso che fosse al corrente delle intenzioni dei partigiani di vendicare i loro compagni caduti per la libertà.

Mentre era nel gabinetto di frasche, il guardaboschi fu raggiunto da una raffica di mitra e fece appena in tempo a rientrare in casa, dicendo: «Chiamatemi il prete, sto per morire!»
Questo accadde nel 1944. Ritornerò sull’argomento in altri capitoli.

CAPITOLO SESTO

Brescia, gennaio 2014

San Gallo ora si presenta come un paese sparso lungo una strada pianeggiante.
Le case, tutte rifatte a nuovo e dotate di servizi igienici interni, non assomigliano più a quelle vecchie case contadine costruite verso la seconda metà del Settecento.
Un lungo porticato sulla facciata al piano terreno, un loggiato al primo piano; all’interno del porticato, sulla destra, c’era la cucina, mentre sulla sinistra la stalla.
Sopra la stalla si trovava il fienile, con un buco di circa ottanta centimetri che collegava la stalla: serviva per far scendere il fieno nella greppia.
All’interno del loggiato c’erano due camere.

Vorrei soffermarmi a descrivere le funzioni del porticato negli anni Trenta e Quaranta, dove ogni giorno arrivavano i personaggi più strani e il nonno sovrintendeva a tutte le operazioni, dando a tutti saggi consigli.
Un lungo tavolato sostenuto da due cavalletti in legno era l’unico arredamento.

Ma chi erano questi personaggi che passavano o si fermavano sotto questo portico?
Ogni giorno c’era un accattone che cercava la carità: quello del lunedì si riconosceva dal cattivo odore che emanava; quello del mercoledì da come era vestito — giacca a brandelli, pantaloni con pezze di vari colori — e aveva una bisaccia unta e bisunta (chissà cosa conteneva).
Poi arrivava quello del venerdì, con un paio di zoccoli che facevano un rumore dal ritmo particolare, forse per farsi sentire mentre arrivava.


La mia nonna paterna aveva sempre in serbo qualcosa da dare loro: un uovo, un paio di mele o qualche centesimo.
Recitavano sempre una preghiera quando arrivavano sotto il portico.

Periodicamente arrivavano anche i frati cercatori: avevano una bisaccia doppia sulla spalla, dello stesso colore del saio che indossavano. Anche a loro mia nonna donava qualcosa, soprattutto un po’ di noci — forse perché aveva sentito raccontare dal nonno il famoso episodio del “miracolo delle noci” tratto dai Promessi sposi.

Gli altri personaggi che esercitavano su di me un fascino particolare erano coloro che facevano i mestieri più vari.
Il signor Agostino (chissà perché lo chiamavano così) faceva lo straccivendolo: era vestito in modo strano, con le fasce militari alle gambe come i fanti della Prima guerra mondiale, pantaloni unti e bisunti e una giubba militare tutta sbrindellata.
Mangiava tutto ciò che per noi non era commestibile: latte andato a male, mele marce, uccellini con le penne, lardo rancido e altre porcherie.
Tant’è vero che una volta gli venne una dissenteria talmente forte che non fece in tempo a calarsi i pantaloni e fu costretto a lavarli nel ruscello, rimanendo in mutande in un fienile finché non si asciugarono.

Il signor Battista, invece, era un calzolaio ambulante.
Si portava sulle spalle il suo deschetto e andava di portico in portico ad aggiustare scarpe e ciabatte.

 

Ogni tanto sospendeva il lavoro, si alzava e cominciava a grattarsi un po’ dappertutto, canticchiando un motivo accompagnato dal suono “pum pum pum”.
Si accontentava di pochi centesimi o, in alternativa, chiedeva un piatto di minestra o un pezzo di pane con mezza cipolla arrivavano poi dal Veneto gli scagnellari (detti scagnì), quelli che impagliavano le sedie.
Lavoravano seriamente e dormivano sui fienili delle cascine, restando fino a quando avevano finito di impagliare tutte le sedie della casa, compreso il mio seggiolone e lo sgabellino della nonna che si trovava in fondo al portico.

Dal Friuli arrivavano anche le venditrici di mestoli, scodelle e cucchiai di legno — le chiamavano palere.
Erano donne dalle spalle larghe e robuste, portavano grandi gerle con cassettini contenenti bottoni, aghi, elastici, nastri, pizzi e altre cianfrusaglie.
Io facevo la mira allo zufolo di legno, ma non me lo compravano mai.
Anche loro dormivano sui fienili o nelle stalle quando faceva freddo.

Ogni quindici giorni arrivava anche un venditore ambulante di tabacco da Nave, soprannominato Bòlèt.
Il nonno ne approfittava per fare scorta per la sua pipa, ma quando la fumava puzzava di fichi d’asino.
Quando finiva, grattava la pipa con un chiodo, vuotava ciò che restava nel palmo della mano, lo metteva in bocca e lo masticava dicendo: “Così uccido tutti i microbi”.

Tre o quattro volte l’anno arrivava anche il magnano (parolòt), con pignatte, padelle e mantice sulle spalle.
Si piazzava in fondo al cortile, accendeva un fuocherello e lo ravvivava col mantice.
Faceva colare lo stagno in un barattolo e lo versava nelle pentole, facendole tornare lucide.
Io lo aiutavo a girare la manovella del mantice e alla fine mi dava una mancia di dieci centesimi, che mostravo con orgoglio a mia nonna.
Lei diceva sempre: “Chi lavora mangia, chi non lavora non mangia!”

Anche le materassaie (sgarzine) facevano la loro comparsa una volta l’anno: si piazzavano sotto il portico con un traspolo (una sorta di asse oscillante irta di chiodi), svuotavano i materassi, ne ravvivavano la lana e poi li ricucivano a mano.

Infine arrivava una coppia di arrotini e ombrellai, marito e moglie, anche loro veneti.
Lui affilava roncole, forbici e coltelli con una mola a pedale; lei aggiustava ombrelli, raddrizzava bacchette e cuciva strappi.
Non erano una coppia molto affiatata, perché i litigi erano frequenti, tanto che l’arrotino doveva spesso cedere sotto i colpi d’ombrello vibrati dalla moglie.
Dopo una decina di minuti, però, tornavano al lavoro come se nulla fosse successo.

Quando arrivavano gli spazzacamini, io andavo a nascondermi: avevo paura!
Mi avevano descritto il diavolo nero con gli occhi rossi e al solo vederli mi spaventavo.
Poverini, erano così poveri che portavano via anche la fuliggine per venderla come concime per i giardini.

Prima della vendemmia comparivano i cestai, che con i vimini rifacevano la protezione alle damigiane destinate al vino nuovo.
Questo lavoro lo seguiva direttamente il nonno, per assicurarsi che le protezioni durassero almeno tre anni contro l’umidità della cantina.

Caro vecchio portico,
rifugio di coloro che cercavano sotto di te ristoro e ospitalità…
Sei sparito.
Il progresso ti ha cancellato.
La scena è vuota: tutti sono usciti.
Il nonno, la nonna, lo straccivendolo, i barboni, gli arrotini…
Nessuno è rimasto.
Ma… ecco dove vi siete nascosti:
ora vi vedo!
Siete lì, dietro le quinte dei miei ricordi!

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